In occasione del Tea Break di aprile (2022) abbiamo parlato di “contesto”, in mediazione e di come debba questo essere considerato dal mediatore.
Lo spunto per la discussione era stato generato da Vanessa Spoladore, che ha condotto l’incontro presentandolo così:
“Ogni individuo che entra in relazione con altri porta con sé il suo “mondo” fatto di credenze, vissuti, valori, linguaggi, aspettative, visioni ecc…, ogni conflitto o crisi di relazione si inserisce in uno specifico e particolare contesto dato dall’interazione di questi mondi che condiziona il modo di essere in relazione ed è a sua volta condizionato dal comportamento (azioni e reazioni) dei partecipanti, per cui il contesto non è immutabile ma è sempre in continuo cambiamento. Essere con le parti “qui e ora” significa anche saper prestare attenzione al contesto? Quanto conta il contesto per le parti che vivono una crisi di relazione? La mediazione richiede uno specifico contesto o può essere fatta in qualsiasi contesto?”
Qui il link agli highlights (circa 6′) e alla registrazione completa (circa 1 ora).
Intanto una precisazione terminologica: cosa deve intendersi per ‘contesto’?
La definizione condivisa è quella, canonica, di
“situazione in cui si svolge l’atto comunicativo”, e quindi ”l’insieme di conoscenze, credenze, presupposizioni, condivise da chi fa e da chi riceve una comunicazione, che guidano la comprensione dell’atto comunicativo” (Treccani online).
Per quanto ci interessa, il contesto è quindi, in una sessione di mediazione la realtà co-costruita dai partecipanti alla discussione (mediatore incluso, ovviamente), sulla scorta delle rispettive narrative.
La nozione è rilevante perché coglie l’aspetto del qui & ora che ci è particolarmente caro, come mediatori trasformativi: il contesto, in questa accezione, varia costantemente e designa, in parole povere, la situazione come si svolge via via il confronto dialettico procede. In ciò il contesto è un unicum irripetibile perché dettato dalla contingenza che non è mai eguale a sé stessa.
Va detto, peraltro, che nel corso dell’incontro è emerso anche un altro modo di intendere il contesto, vale a dire contesto come situazione tipizzata (es. “… nel contesto delle mediazioni demandate, rispetto al contesto delle mediazioni familiari, o condominiali, … succede che…”). Si tratta evidentemente di un’astrazione che facilita la categorizzazione di episodi singoli rilevati dall’esperienza. L’operazione presenta dei suoi aspetti positivi, in quanto permette (o illude di permettere) l’identificazione di tratti comuni a situazioni per definizione diverse (es. “nelle mediazioni familiari entrano in gioco aspetti di relazione personale, … e quindi non è mai solo questione di soldi”); ma pure aspetti controproducenti, in quanto rischia di eliminare le differenze e rischia di creare pregiudizi e indurre ad un approccio macro, piuttosto che focalizzato su quello che accade nel qui & ora (es. “… e quindi non è mai solo questione di soldi”).
Comunque sia, la discussione si è poi focalizzata su che rilevanza il mediatore debba dare al contesto. È stato al proposito ricordato che uno degli obiettivi primari, nella pratica trasformativa, sia quello di caratterizzare la mediazione come occasione, per le parti interessate al conflitto, di avere una conversazione costruttiva su questo (o meglio, sulle questioni che esse scelgono di discutere).
In tale prospettiva, è chiaro come il mediatore trasformativa non solo possa, ma debba, intervenire nel contesto al fine appunto di supportare le parti nel senso indicato (per inciso ciò rende palese come la pratica trasformativa preveda un intervento senz’altro proattivo del mediatore). Essere non-direttivi, non significa essere inerti, anzi (significa solo non spingere le parti nella direzione che il mediatore ritiene giusta, piuttosto che seguirle nella direzione che esse stesse si determinano a seguire, nel corso del confronto).
Aver attenzione al contesto si traduce, in tale prospettiva, per il mediatore (i) nell’osservare e seguire attentamente lo scambio dialogico che avviene avanti a lui/lei (c.d. “ascolto profondo”), (ii) nel valutare quindi che tipo di intervento sia opportuno fare e (iii) nel farlo, non appena le circostanze lo consentono. È la triade attending-monitoring-responding che insegniamo nei corsi base:
- osservare come si svolge l’interazione (attending) lasciando spazio alle parti
- prima di intervenire, pensare cosa si vuole determinare e se questo è conforme all’orientamento scelto (monitoring)
- essere reattivo alle richieste delle parti (responding). In senso trasformativo:
Lo schema è ovviamente utilizzabile da qualsiasi mediatore che desideri essere consapevole (di quel che fa e degli effetti che i suoi interventi producono), indipendentemente dall’approccio adottato. In quello trasformativo, naturalmente, la cura è di porre in essere interventi finalizzati a supportare il processo di empowerment e di recognition, e non ad altro (es. fare in modo che le parti raggiungano un accordo, o si riconciliano, o che una si scusi, …).
Nel corso della discussione si è pure accennato a due atteggiamenti, tipici di approcci diversi da quello trasformativo: (i) l’entrare in sintonia con le parti – o meglio, come s’è detto, essere ‘coerenti’ con il contesto – e (ii) raccogliere informazioni che permettano di capire meglio in contesto.
Per quanto riguarda il primo – entrare in sintonia (matching)? – è evidente che per la maggior parte delle persone (e quindi anche dei mediatori) è un naturale (e biologicamente funzionale) tentativo di adattamento alla situazione al fine di renderla socialmente praticabile. Banalmente, ad un sorriso, tendiamo a rispondere con un sorriso, e così via… Si tratta di un bagaglio di micro-reazioni che caratterizzano ogni interazione umana. Sin qui nulla di male, anzi. Il punto è che il matching non può costituire una preoccupazione primaria del mediatore, almeno nel modello trasformativo. Anzi, s’è visto come questi sia chiamato a perseguire l’obiettivo del supporto di empowerment e recognition, e l’acquiescenza ad un contesto dato può risultare un fattore disturbante al riguardo. Ben diversa è la situazione in modelli direttivi, che non a caso insegnano come il matching (ed il conseguente ricorso all’empatia) sia fondamentale per la costruzione di un ’rapporto’. Questo infatti è basilare per poter poi mettere in atto le strategie (essenzialmente persuasive) che caratterizzano l’azione del mediatore.
Pure per quanto il secondo – ‘conoscere meglio’ il contesto? -valgono le considerazioni fatte. In modelli diversi da quello trasformativo (segnatamente in quelli di scuola facilitativa problem-solving) conoscere significa, per il mediatore, poter poi identificare interessi inespressi e (possibilmente) prospettive e soluzioni sino ad allora inesplorate. A questo servono sostanzialmente le domande e le sessioni individuali (ed in genere tutta la c.d. fase di ‘esplorazione’), in un’ottica che viene definita “macro”, nel senso che tiene conto di tutti i vari elementi del caso, nel suo complesso. Nel modello trasformativo, per contro, raccogliere informazioni diverse da quelle immediatamente percepibili dall’interazione stessa, per come si svolge, non ha gran senso. Il mediatore trasformativo non va in cerca di soluzione e non elabora mentalmente una sua agenda, ma segue il dialogo per come le parti vogliono tenerlo, punteggiandolo di interventi volti a sostenere il processo di presa di coscienza e deliberativo. È un’ottica che viene definita “micro”, in opposizione a quella sopra descritta e non richiede la raccolta di informazioni quanto piuttosto l’attenzione a quanto emerge nel momento.
Iscrivetevi al canale AMT su YouTube. Sarete tenuti al corrente appena un nuovo video viene pubblicato.